Si tratta di un mio articolo con disegno pubblicato sulla rivista della biblioteca di Tiglieto “Il Foglio”. Lo propongo qui perché trovo che dialoghi con il concetto di ecocounseling.
C’è qualcosa nei disegni di Mordillo, nelle sue montagne tondeggianti come poppe, che mi solletica e mi strugge. Vorrei essere là in mezzo, risalirle e superarle. Percorrerne le strade surreali e sinuose come bisce.
Vi è qualcosa che chiama, in quei disegni. Non è tanto ciò che si vede quanto, piuttosto, quello che non si scorge, ma che si sente, forte, esserci là dietro. Al di là dei primi contrafforti dalle linee morbide sta racchiuso l’oltre, si prelude l’altrove.
Sono cresciuto nell’Appennino del parco dell’Antola, dove ci sono almeno due monti che ricordano i rotondi panettoni di Mordillo: il monte Carmo, sopra le capanne di Carrega, dove i partigiani portarono la loro sede operativa e la cupola della Ciappassa, che osservavo ergersi erbosa sopra la casa delle Ginestre, sul versante che si offre al lago del Brugneto.
Oggi che abito a Voltri devo percorrere ancor meno strada per ascoltare nel territorio quel richiamo “mordillesco”. Dalle finestre che prendono il salino, conto il susseguirsi dei colli: quello basso della vicina Villa Duchessa di Galliera, il Nervallo che precede il promontorio di Crevari; dietro spunta la Brigna e salendo il contrafforte roccioso, so di trovare il Prou Ballou. Il pietroso monte Pennone, che dal basso appare come una sovrastante e imponente piramide, una volta avvicinato si rivela assai meno verticale, quasi accasciato verso ponente. Nelle giornate di bassa pressione è coperto di nebbia, come questa mattina. Si dice allora che, non scorgendosi “u garbo da Mannena” (il buco della Maddalena), debba venire a piovere. Sulla destra spunta ancora lo sbieco taglio delle Tardie. Il tutto è chiuso alle spalle dal fondale alto del monte Reixa e girando lo sguardo verso nord, un poco discosta, si legge l’inconfondibile sagoma del monte Dente.
Il fascino che questa serie di quinte naturali esercita su di me, non deriva dal sapere che lì vi si possa trovare qualche piacevole via di arrampicata o che il toponimo “Prato ballato” rimandi al luogo dove forse le streghe danzavano passi antichi. Mi piace immaginarle ebbre e orgiastiche a cercare energia e libertà nella natura, al di sopra della sorveglianza puntuta di ogni campanile. L’origine di questo mio sentire non è nemmeno dovuta al caratteristico cappuccio di nuvole bianche che si fermano sulla parte più alta del crinale, che le rende più alte e, talvolta, le fa apparire stranamente innevate.
E’ invece quel susseguirsi armonico di materia che crea spazi dentro gli spazi, luoghi dietro ai luoghi, l’invisibile nel così tante volte osservato. E là in mezzo, proprio in mezzo, oltre la possibilità di essere ammirato, dopo la salita e ai piedi della discesa, come un albume al centro dell’uovo cosmico, c’è il passo della Gava. Luogo metafora delle mille possibilità, soglia che si è fatta raggiungere e che ora ti offre all’oltre, ad altra terra, altro territorio. Da lì ogni prospettiva si apre e, tuttavia, non puoi raggiungere alcun luogo se non scegliendo. Da quel posto puoi procedere in salita o in discesa. Puoi puntare alla vetta per trovare un grande respiro verso le Alpi, sorvolando la padana e le sue foschie, oppure puoi gettarti verso la forra, oltre la sorgente, sfiorando le gole del torrente, schivando la cascata dove Pan ama suonare il flauto alle ninfe. Chi ne ha necessità può scendere al mare senza affrontare altre salite, solo la noia dei sassi di un monotono stradone. Chi si sente chiamato cerca a oriente le sorgenti del Malanotte, oppure procede verso il calar del sole rimanendo a mezza costa. Non importa sapere dove si vuole andare, ma è indispensabile scegliere.
Spesso ci trova la nebbia e sorge in noi la voglia di luce. Così scontato, consideriamo il mondo, che solo la nebbia, nel rubarlo, ne restituisce il valore. L’ho trovata salendo, la luce e anche perdendo quota o scavallando dentro i boschi di Vara, nei monti oltre i monti. Alla fine si fa raggiungere e con essa ritorniamo al mondo fuori di noi. Al Passo della Gava, però, non la puoi trovare se non sai attraversare la stretta sugli occhi e sul cuore. Occorre stare e saper stare in quell’altro mondo, quello dentro, quello che si nasconde tra gli schiamazzi esterni. Quella nebbia della Gava chiede di ritrovarsi al proprio centro e abitarlo per poter proseguire, un respiro dopo l’altro, un fiato dopo l’altro che si fanno nebbia, che ci fanno nebbia.
Al passo della Gava ho incontrato il buio. Un nero e spesso, invernale buio. Così impenetrabile da impedirmi i pochi passi necessari a un giro di tenda. Sotto i punti luminosi delle galassie infinite l’uomo si fa piccino piccino, gioisce ingenuo al pensiero delle proprie pupille, stelle tra le stelle, ma nella totalità oscura del cielo senza luna non esiste più niente, un metro ancora è il precipitare in quel nulla forse senza ritorno. In quel passo non avanzato il buio offre il senso del limite, la paura senza motivo, la vertigine al piano terra.
Allora non resta che accettarla, questa ferita d’orgoglio, e portarla con noi a passare la notte in quella tenda bellissima che abbiamo piantata nel cuore, nel passo della Gava, in mezzo a quei monti che lì si riuniscono e ripartono. Nel mezzo c’è la nostra tenda, il corpo della nostra casa, riparo notturno.
Quando la neve è scesa e il passo della Gava ne è coperto, puoi accettare di affondare nel bianco, puoi affidarti al capriolo e alle sue orme. Se qualcuno è venuto con te, sei tu l’orma dell’animale seguito, allora nell’affondare è importante rispettare la lunghezza della gamba minore, la scarpa meno vestita, il fiato più corto, il sentire dell’altro che sei anche tu. Anche se non piace, lo stradone che scende verso Arenzano, può diventare un’utile via di ritorno.
Al passo della Gava si incontra il vento degli alberi piegati, quello che cade a precipizio dal crinale, quello che sale spinto dalle onde. Il vento, quando porta le nubi d’occidente e quando le spazza via, e diresti per sempre, perché quel blu di cielo e mare è tutto ciò che desideri e di cui hai bisogno. Puoi ripararti oppure cercarlo e lasciarlo entrare, lasciarlo pulire. Il vento del Passo della Gava racconta una storia, dice che la terra è un’enorme bestia addormentata e per convincerti ne spazzola l’irsuto pelo erboso così che anche tu non puoi che sentire nella sua vita anche la tua. Vita di bestiola che deve imparare il rispetto di dove cammina.
Se sei stato al Passo della Gava, hai riparato nel buio, hai urlato nel vento,hai cercato nella nebbia e hai calcato la neve, allora forse vuoi vivere alto. Camminare alto, respirare e godere e pensare, alto quanto puoi credere di essere e divenire. Ciò che ti spetta, tenendo il mento alzato e lo sguardo levato, è di correre nella meraviglia di un prato d’erba spessa, che ormai sai essere vivo, e planare nello spazio inedito di un mare di nubi là sotto, appena più in basso.
Farsi molli, come disse mio figlio esposto al vento, e volare come un sacchetto di nailon verso l’orizzonte popolato di luce e promontori e colori serali. E anche per questo dovremmo chiedere un disegno al grande Mordillo.