Perché il Counseling è importante: il livello individuale
In un altro articolo ho tratteggiato un quadro generale di come si caratterizza l’epoca in cui viviamo per indicare, in relazione a ciò, l’importanza del Counseling.
E’ altresì importante comprendere come le tendenze macrosociali si traducono in comportamenti e in stati di disagio individuali.
Tra i diversi indicatori per leggere lo stato di benessere individuale figura il consumo di farmaci e, in particolare, di psicofarmaci. Il consumo di antidepressivi è un indicatore di malessere individuale. Le ricerche attestano che nel decennio 2006-2016 il consumo di questi farmaci nel nostro paese sia andato crescendo. Come sostiene il rapporto Osservasalute 2017: “le problematiche legate allo stato di malattia depressiva, a causa del loro costante aumento, registrato a livello non solo europeo, ma anche nei cosiddetti Paesi dalle economie emergenti, rivestono un ruolo sempre più prioritario. A conferma di ciò, vi sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che indicano tali patologie come alcune tra le principali cause di morte nei Paesi occidentali.” Lo stesso allarme è segnalato anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco: “L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara che nel 2020 la depressione sarà la più diffusa al mondo tra le malattie mentali e in generale la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari. Non è un caso che negli ultimi 3- 4 anni si sia registrato un notevole aumento di casi di malattie mentali. L’intensità di queste malattie resta invariata, ma è il numero di persone colpite a preoccupare”.
Oltre ai farmaci antidepressivi si consumano anche antipsicotici e benzodiazepine. Se il consumo dei primi, secondo l’AIFA, cresce solo del 4% dal 2015 al 2017 il consumo delle seconde, che comprendono ipnotici, ansiolitici e sedativi, cresce del 7,6%. Si tratta di dati per difetto poiché considerano solo i farmaci prescritti dal sistema sanitario nazionale e non quelli liberamente acquistati.
In Europa i maggiori consumatori di psicofarmaci non prescritti tra i ragazzi (15-19 anni) sono gli studenti italiani (10% contro il 6% della media europea) e continua a crescere il numero di coloro che diventano consumatori abituali. Si tratta di farmaci usati per dormire, per aiutare a studiare più a lungo o a prolungare le notti, per accrescere l’attenzione e l’iperattività, per regolarizzare l’umore, per far passare la fame.
Il Rapporto “Osservasalute 2017”, dell’Università Cattolica del sacro Cuore, fotografa lo stato di salute nelle diverse regioni italiane. In esso si legge che “Il trend relativo al volume prescrittivo dei farmaci antidepressivi, dopo l’incremento costante registrato nel decennio precedente, sembrava aver raggiunto, nel periodo 2011-2012, una fase “plateau” di stabilità, mentre nel quadriennio successivo si è registrato un nuovo aumento. I consumi più elevati di farmaci antidepressivi per l’ultimo anno di riferimento (2016) si sono registrati in Toscana, PA di Bolzano, Liguria e Umbria, mentre le regioni del Sud e le Isole, con l’eccezione della Sardegna, presentano i valori più bassi (in particolare, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia e Molise)”.
Insomma un uso di farmaci come risposta chimica a sostegno di comportamenti, più che un intervento rispetto ad un bisogno di salute.
Nonostante l’incremento l’Italia rimane in Europa uno dei paesi dove si consumano meno antidepressivi. “Nel nostro Paese, dicono i dati, sono stati venduti nel 2016 farmaci per il tono dell’umore per oltre 1,1 miliardi di unità standard (fiale e compresse), che hanno generato una spesa di oltre 262 milioni di euro.
Se il mercato farmacologico è florido, gli interventi pubblici a sostegno del malessere mentale diminuiscono. Il sole 24 ore, riportando gli esiti di diverse ricerche, sviluppa un’interessante analisi sul terreno della salute mentale. L’articolo evidenzia che i disturbi depressivi e i disturbi d’ansia (i più diffusi nella popolazione e con impatto a livello personale, relazionale e lavorativo) pur essendo in crescita non destano attenzione e risposte. Ha così luogo il “paradosso della salute mentale”, ossia la riduzione degli investimenti a fronte di un ingente incremento dei problemi nella popolazione.
Una prima ricerca, che utilizza i dati Istat del 2013, rileva che a livello nazionale, i soggetti con alta probabilità di presentare disturbi ansiosi e/o depressivi corrispondono al 14,8% della popolazione (5.480.118 persone), ma solo 1.703.033 di individui, avevano, al momento dell’intervista, una condizione di ansia e/o depressione diagnosticata da un medico. Un’altra ricerca, effettuata dall’Istat che raccoglie informazioni sull’auto-percezione dello stato di salute, rilevava nel 2016 la presenza di “disturbi nervosi” nel 4,5% del campione, corrispondente a 2.357.266 persone della popolazione generale.
Questi dati mi paiono interessanti, come counselor, proprio perché riguardano molte persone il cui malessere non è immediatamente riconducibile a un bisogno sanitario.
Ansia e depressione sono spesso correlate allo stress. Cerchiamo allora di capire cosa accade, in particolare alle nuove generazioni, considerando la loro relazione con la scuola e con le nuove tecnologie. Ecco una schematica carrellata di indicazioni.
Secondo uno studio americano gli adolescenti sono più stressati degli adulti e il 27% di loro (contro il 20% della popolazione adulta) sostiene di vivere una condizione di stress estremo. La percentuale cala al 13% nei mesi estivi, a scuole chiuse. Il 40% di questi giovani cerca risposta nei videogiochi, mentre il 37% di loro afferma di cercare risposta nell’attività fisica.
Il 40% degli adolescenti si ritiene irritabile o soggetto a rabbia e uno su tre ammette di vivere tristezza o di sentirsi depresso. Di fronte a questo quadro, gli esperti mettono in guardia rispetto al rischio di scivolare dallo stress alla depressione. Il calo dello stress percepito nei mesi estivi giustifica un riferimento al mondo scolastico, un esempio di come un dato ambiente possa contribuire o meno al senso di benessere.
Uno studio OCSE sul benessere scolastico prende in considerazione diversi paesi in tutto il mondo. Da esso risulta che i quindicenni italiani sono i più soggetti ad ansia. Fattore che cresce negli istituti in cui lo studio e la scuola richiedono molte ore di impegno (più di 50 ore alla settimana). L’ansia appare associata ad una scarsa soddisfazione di vita. Si dichiarano infatti molto soddisfatti della vita 24 studenti italiani su 100, rispetto ai 34 della media nei paesi OCSE. Ciò che aiuta i giovani studenti a trovare un senso positivo di sé e della loro vita è il percepire di trovarsi in una scuola disciplinata in cui gli insegnanti si dimostrano disponibili e partecipi riguardo al loro apprendimento personale.
Lo stesso studio definisce consumo estremo il vivere connessi alla rete per almeno 6 ore al giorno, senza un giustificato motivo professionale. In questa situazione si trova il 23% degli studenti italiani, che supera la media degli altri paesi. Il tempo medio di connessione per gli studenti del nostro paese è di 165 minuti, mentre la media OCSE si attesta a 146 minuti. Affermano, inoltre, di “sentirsi male” senza connessione il 47% degli intervistati italiani, contro il 54% della media OCSE. L’elevato tempo di connessione è correlato ad una minore probabilità di successo scolastico.
Il Rapporto dell’Osservatorio Mondiale Sanità in materia di salute e benessere dei giovani (2014) evidenzia che solo il 9% (dei quindicenni italiani condividono la frase “La scuola mi piace un sacco”. Siamo i quart’ultimi. Il 58% degli studenti armeni invece condivide la stessa frase.
Nelle nostre scuole si rileva stress da pressione percepita per il 72% delle femmine e per il 51% maschi. Vengono inoltre riscontrati disturbi mentali nel 20 % degli adolescenti italiani e non bisogna dimenticare che la depressione è la seconda patologia più diffusa al mondo.
Una ricerca australiana indica che le persone che trascorrono più tempo connesse a internet sono più soggette ad ansia e stress. Negli ultimi 5 anni il 60% dei giovani soffre di eccesso di stress e depressione. Si ipotizza che a causare disagio sia il confronto con l’altro mediato dai social. Misurarsi non con persone vere, ma con il loro modo di mostrarsi secondo i codici della rete può sviluppare un senso di inferiorità. Per paradosso la metà dei giovani che si riconosce stressata ammette di ricorrere ai social (fattore stressante) come momento di autoterapia per cercare calma ed equilibrio. La dipendenza da Social Network, sostengono i ricercatori, aumenta la propensione ad altre forme di dipendenza.
Siamo in presenza di una difficoltà personale a cercare soluzioni dentro di sé, rinforzata sul piano culturale, tecnologico e farmacologico.
Anche una indagine congiunta di Eurispes e di telefono azzurro, già nel 2012, segnalava un rischio di dipendenza da internet per il 70% dei ragazzi italiani e spiegava come il problema non fossero tanto le tecnologie e il loro uso quanto il difficile rapporto dei giovani con le emozioni (noia, ansia, rabbia, solitudine, ecc.). Sul piano pedagogico era ritenuto auspicabile un rapporto di sintonia tra adulto e ragazzo passando da una relazione centrata sul controllo utilitaristico (“come è andata oggi a scuola?”) ad una maggiore attenzione al livello personale (“come stai?”).
Un generale livello di disagio giovanile è riscontrato da Eurispes (2009) rilevando come il suicidio sia la terza causa di morte tra i giovani e dal Ministero della salute (2014) per cui il 75% dei giovani abusano di sostanze e alcool prima dei 25 anni.
L’esposizione alle nuove tecnologie elettroniche e mediatiche favoriscono stati ansiosi. I Media ci forniscono stimoli sempre più incalzanti e forti, che tuttavia ci lasciano sempre un ruolo passivo. I social media hanno assunto un posto rilevante nella vita quotidiana e ci portano a coprire, ad essere presenti, territori sempre più vasti. Ciò limita il tempo per altre forme di approfondimento e di ascolto di noi stessi. Vi è, inoltre, chi parla di analfabetismo emotivo, di contrazione della capacità di pensiero e chi usa l’espressione analfabetismo naturale per indicare il diffuso non riconoscimento degli stimoli provenienti dalla natura.
In questo quadro il Counseling si rivela come una possibilità di dedicare tempo a se stessi e alla ricerca di una migliore qualità della vita. Può essere una risorsa preziosa a livello preventivo, per evitare disagi più seri. Il counselor accompagna la persona nei cambiamenti e nelle transizioni, sempre più veloci e improvvise. E’ uno spazio tempo per l’elaborazione narrativa e culturale dei propri bisogni, desideri e problemi esistenziali. Un’opportunità di empowerment per dare valore alle proprie risorse di fronteggiamento.